Intervista a Mariangela Gualtieri

Foto di Melina Mulas

In occasione della Giornata mondiale della poesia, pubblico questa intervista a Mariangela Gualtieri nata in occasione del primo appuntamento del Festival Biblico di Vicenza 2021.

Mariangela Gualtieri con i suoi versi ha sempre cercato ostinatamente l’armonia anche in mezzo ai cocci. Troppo facile, scrive in “Bambina mia”, tratta dalla sua ultima raccolta “Quando non morivo” pubblicata da Einaudi, dipingere l’umano come una bestia zoppa e il mondo come una palla alla fine. Troppo facile tingere tutto di buio pesto e sangue. Se si fa attenzione, se ci si abbandona con fiducia al tutto senza nessuna volontà di potenza, ci si accorge che c’è splendore in ogni cosa. E la sua poesia impastata d’oralità, assetata d’assoluto, che si muove tra evidenza e mistero, mancanza e pienezza, patimento ed estasi, vuole testimoniare questo splendore. Lodarlo e celebrarlo in tutte le sue manifestazioni visibili e invisibili perché le cose per cui dire grazie non finiscono mai. La poetessa e drammaturga, nata a Cesena nel 1951 e fondatrice con Cesare Ronconi del Teatro Valdoca, ha aperto, insieme a padre Bernardo Francesco Gianni, abate di San Miniato al Monte, la nuova edizione del Festival Biblico il cui tema centrale è la fratellanza universale. Il video dell’incontro è visibile qui.


L’eco del versetto di Matteo “Siete tutti fratelli” che dà il titolo a questa edizione del festival biblico attraversa tutta la sua opera. Non c’è chiusura nei suoi versi ma continua apertura all’altro da sé. Cos’è per lei la fratellanza e come mai abita in modo così diffuso la sua poesia?  
La mia disposizione è di avvicinarmi all’altro, come a qualcuno più esperto di vita di me, qualcuno o qualcuna che mi insegnerà qualcosa. Forse è una sindrome di sorella piccola che mi porto dall’infanzia. Accetto la mia inferiorità e non me ne dispiaccio, anzi, è piuttosto bello pensare che tutti abbiano qualche dono per me. A volte resto delusa, certo, ma ho innumerevoli sorelle e fratelli, e me ne viene molta gioia. Con la maturità è arrivata la consapevolezza degli altri, tutti gli altri che mi tengono in vita, piante, animali, acqua, aria, mi sento fatta di tutto questo, è più di una fratellanza. A volte, in momenti di particolare armonia è una identità. Penso che la fratellanza sia una disposizione dell’animo che mi è stata insegnata, per la quale l’altro non è percepito come rivale né come soggetto da sfruttare, ma piuttosto come fondamentale via per stare nel mondo in sereno equilibrio, in un fare che è sempre l’altro ad insegnarci, in una espressione di sé che è sempre l’altro ad accogliere. La fratellanza è per me anche l’ambito del gioco, della giocondità.

I suoi versi sono intrisi di silenzio e non a caso in una poesia della sua ultima raccolta lei si rivolge direttamente al silenzio, quasi lo invoca con questi versi: “Oh silenzio! Silenzio! / Di che cosa sei fatto? / Tu sei fatto di non”.  Il silenzio per lei è qualcosa di luminoso e di indispensabile. Come mai? In che senso il silenzio è fatto di “non”?
Il silenzio è un bel pezzo di natura, un pezzo che purtroppo si fa sempre più raro. La poesia è parola che ha al centro il silenzio, è tessitura di parole e di silenzio. Posso stare senza mangiare un giorno, senza difficoltà, ma un giorno senza un nucleo silenzioso mi pare un giorno perso. Nel silenzio qualcosa viene meno, è come abitare una grande sottrazione, un deserto colmo di invisibile pienezza, per questo lo sento fatto di ‘non’.

 In quello che finora ha scritto vi è un’oscillazione costante tra una mancanza, una ferita, e il desiderio di ricongiungersi con l’infinito, con la totalità, con l’anima mundi. Cos’è questa mancanza che la spinge a questo continuo dialogo con l’infinito?  
Credo che di questo si possa parlare solo in versi. Forse alla radice della poesia c’è sempre questa mancanza, che da un lato riguarda la parola stessa, come nostalgia del proprio calco d’origine, una antepatria poetica, come la chiamava Bruno Schulz, dall’altro il sentimento di un porto sepolto, per citare Ungaretti, al quale fare ritorno. 

La poesia “Nove marzo 2020”, scritta all’inizio della pandemia ha avuto un boom di visualizzazione nel web e a distanza di mesi quei versi non cessano di risuonare in chi li legge.  Lei scrive che in qualche modo dovevamo fermarci, “troppo furioso il nostro fare”, ma non ci riuscivamo. La pandemia ci ha invece costretto a rallentare. Lei scrive che c’è dell’oro in questo tempo strano. Qual è l’oro più prezioso per lei di cui dovremmo far tesoro?
È forse una bastonata d’oro al nostro narcisismo di specie, cioè scoprire che la terra può benissimo fare a meno di noi, che non siamo né i più sapienti né al centro del mondo. Siamo una fragile e ferocissima specie da poco comparsa sulla terra e abbiamo bisogno di tutti gli altri, dall’ape al lombrico, dal bosco all’erba, se vogliamo durata. Da qui spero nasca un nostro più appassionato aver cura di tutto.

La sua poesia tende ad abbracciare ogni cosa, è caratterizzata da uno slancio creaturale straordinario. Nella sua ultima raccolta “Quando non morivo” un ruolo centrale lo assume quella che in modo un po’ semplicistico chiamiamo natura ma soprattutto gli animali. Come mai?
Gli animali hanno quasi sempre una grazia sorprendente, e sono così spesso nostri alleati. Hanno sapienza e leggerezza, hanno sentimenti, hanno intelligenza. Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di avere un gatto o un cane, sa quanta amicizia e affetto si possa creare fra specie. Ci vorrebbe una nuova parola per dire la particolare forma di amore fra noi umani e gli altri animali. Provo dolore e vergogna per i milioni e milioni di animali sofferenti, chiusi e maltrattati nei nostri allevamenti, animali che ci nutrono da generazioni, che nascono e muoiono coatti e nevrotizzati, senza toccare terra, senza vedere il cielo, senza avere da noi un grazie. Indiani d’America e vari popoli orientali ci insegnano un altro sguardo sull’animale, il nostro di occidentali mi sembra pieno di cecità e arroganza.

Molti dei suoi versi, quelli che lei definisce epici, sono nati sulle tavole di un palcoscenico, scritti per gli spettacoli, o meglio, riti sonori, del teatro Valdoca. In che modo questa originalissima modalità di comporre ha influito sulla sua poesia?
Il teatro mi ha veramente chiamata ad una nascita poetica attraverso le esortazioni ed il particolare modo di lavorare di Cesare Ronconi, regista insieme al quale ho fondato il Teatro Valdoca, e con cui tuttora collaboro. Ho avuto questa fortuna, di spendermi in teatro, in una comunità teatrale molto particolare e mutevole, un luogo di intenso raccoglimento, di studio, di incontro, di scuola, di avventura, anche di congedi strazianti, anche di dismisura, ma soprattutto di espressione. Piccola terra feconda nella quale tanto è nato.

La ha una fiducia immensa nella parola poetica, un culto che si può definire, senza esagerare, religioso. Si può dire che per lei la poesia è una forma di preghiera? Quali sono i benefici che a suo avviso la poesia può portare in chi la legge o ascolta?
È vero, penso che la poesia sia sacra scrittura, non sempre, non tutta, ma la poesia che amo mi pare che lo sia. Ho grande fiducia perché ho ricevuto tanto da poeti e poete, del presente e del passato, sono stata abbellita dalle loro parole, cresciuta, fortificata, illuminata. È un nutrimento psichico e spirituale inconsumabile, che dopo secoli ha mantenuto una tale fragranza da venirci vicino: parole scritte settecento anni fa, mille o duemila anni fa sembrano scritte proprio per noi ora.

In “Domande a Maria lei si chiede: “C’è tosse di Maria. C’è febbre? C’è stato raffreddore naso chiuso per te? Perché t’hanno Inchiodata in un lindore che ti fa lontana”? Attraverso la figura di Maria sembra che qui lei voglia sottolineare il carattere fondamentale della dimensione corporea che troppo spesso è stato come espunta dalla religione cristiana, ma non solo, e che è inscindibile da quella spirituale. È così?
La vita ha bisogno di un corpo per essere e tutto è misteriosamente intrecciato. Mi sembra troppo semplicistica la separazione fra carne e spirito. In quella poesia mi interrogavo proprio su questo.

Durante i suoi spettacoli del Teatro Valdoca lei non legge. Conosce tutte le sue poesie a memoria e anche moltissime poesie degli altri poeti che ama. È un modo per impastare versi e sangue, per farli essere parte di lei?
Non credo che i versi siano parte di me, o forse sono la miglior parte di me e io cerco di servirli meglio che posso. Impararli a memoria significa potersi abbandonare al canto, poterli recitare come canto, stare concentrati sul suono delle parole e sugli astanti ai quali vengono consegnate, liberando la mente dalla difficoltà di leggere. La poesia è musica e io cerco di seguire i dettami della musica che vuole diventare energia sonora, entrare in noi dal canale aurale. Credo che l’orecchio sia la porta d’entrata che di più porta il mondo nelle nostre profondità.

C’è una poesia in “Quando non morivo” in cui lei l’odore acre che si rivela essere di un capriolo morto. Lei qui definisce la morte “il gran rimpasto delle creature” e intima a sé stessa di non dimenticare quell’odore. La morte lambisce spesso i suoi versi ma si ha l’impressione che sia qualcosa di luminoso e non di lugubre… 
Non so di dove mi venga questa percezione, questa quasi certezza che la morte sia una nascita ad altro, un passaggio. Non trovo nulla di lugubre nella morte, e ho curiosità.

La sua poesia, pur intrisa di religiosità, rifiuta il credo dogmatico delle religioni. La sua ricerca si muove tra occidente e oriente rifiutando una dimensione confessionale. In “Tu preghi, tu invochi, giorno dell’ira” lei scrive “Io non so invocarlo questo tuo Dio / né bestemmiarlo. Troppo duro con me”. Qual il significato profondo di questi versi? Qual è il suo rapporto col cristianesimo?
Quei versi erano scritti per persone che avevano perso tutto durante il terremoto. Erano versi in dialogo col Requiem della tradizione, quindi col Dio del Vecchio Testamento, una entità che ho sempre sentito piuttosto severa e in contrasto con una mia spontanea percezione del divino. Tuttavia non oso pensare ad un Dio, non voglio entrare in questo pensiero, pur avvertendo il divino ovunque, perché la mia testa lo ridurrebbe a se stessa, alla propria limitatezza. Preferisco restare in un indefinito che trae nutrimento da tanta letteratura sacra del mondo.