Intervista a Giorgio Scianna per “Cose più grandi di noi”

“Sono una terrorista”. Questa scritta, accompagnata da “Hey Joe” di Jimi Hendrix sparata a volume altissimo, compare in uno striscione che Marghe, la protagonista di “Cose più grandi di noi” (Einaudi, pagg. 208) di Giorgio Scianna, ha appeso al balcone della casa in cui sta scontando gli arresti domiciliari. Siamo a Milano, agli inizi degli anni Ottanta, e la ragazza, spinta dai genitori e dal suo avvocato, si è avvalsa della nuova legge sui pentiti che concede sconti di pena per chi collabora con lo stato. Lei però si sente una traditrice, sente di aver venduto i suoi compagni di lotta e vorrebbe ritirare la sua confessione. Attraverso la tormentata figura di Marghe, animata dal sogno di un mondo più giusto ma incapace di capire la follia criminale del suo gruppo, Scianna ci racconta, con uno stile asciutto e colloquiale, capace di arrivare a tutti senza tradire la complessità delle cose, un momento cruciale degli anni di piombo.
Questa intervista a Scianna è nata in occasione della sua partecipazione al festival letterario “Parole a confine”. (Una versione più breve è comparsa su “Il giornale di Vicenza” del 21 ottobre 2020).

Ogni rivolta è nostalgia d’innocenza”. Questa epigrafe di A. Camus apre la “La regola dei pesci”, il suo precedente romanzo e sembra anticipare la protagonista di “Cose più grandi di noi”.  Cosa significano per lei queste parole?
Nel gesto della rivolta c’è l’ansia di buttare all’aria un mondo che non ci piace. A volte è un sogno per un futuro migliore, a volte follia criminale, a volte qualcosa che abita la terra di mezzo. Marghe ha dei valori profondi di giustizia ma anche un’incapacità di capire il male che il suo gruppo sta facendo agli altri attraverso il crimine. 

Sia in “Qualcosa ci inventeremo” sia ne “La regola dei pesci” i protagonisti erano adolescenti. Anche in “Cose più grande di noi” l’adolescenza riveste una grandissima importanza. Come mai questo periodo della vita è così centrale nei suoi libri?
I miei primi romanzi fotografavano un mondo per lo più adulto, è negli ultimi tre che gli adolescenti hanno una parte così importante. Trovo che i ragazzi oggi non siano raccontati spesso con il rispetto che si meritano, con una curiosità piena per il loro universo, senza ammiccamenti e senza giudizio a priori. Mi sono inizialmente avvicinato a questo mondo per ragioni biografiche (l’essere padre di ragazzi che attraversavano quegli anni), poi è accaduto che i miei libri siano stati adottati molto dalle scuole e sono arrivati i tantissimi incontri che continuano, e con quelli la voglia di non interrompere il dialogo con i ragazzi.

Sugli Anni di piombo sono stati scritti molti libri. Come mai ha voluto raccontare una storia ambientata proprio in quegli anni?
Avevo l’età di Marghe quando frequentavo il primo anno di giurisprudenza, erano i primi anni ottanta. Evidentemente tante domande mi sono rimaste nella testa e con queste la voglia di riprenderle, di lavorarci sopra. E poi c’era il desiderio di raccontare a chi quel momento non l’ha vissuto la confusione di quei giorni. Credo che serva a tutti riprendere in mano i nodi di quegli anni che ci parlano più di quanto crediamo.

In che modo si è documentato su quegli anni? Ci sono libri particolarmente significativi che l’hanno influenzata?
Ho visto e letto tutto quello che ho potuto su quel periodo storico. I titoli da citare sarebbero tanti ne scelgo due. Zavoli con la sua Notte della Repubblica è stato un compagno prezioso, e poi Caro Michele di Natalia Ginzburg è un romanzo nel quale il terrorismo è toccato in modo molto periferico, di sguincio, ma è un libro che più di tanti altri riesce a cogliere il lessico, la grammatica degli anni settanta o giù di lì, e attraverso quelli, intravede le logiche dei rapporti tra le persone come in pochi sono riusciti a fare.

Per raccontare quel periodo lei ha scelto uno sguardo intimo e privato, analizzando prima di tutto le fortissime turbolenze che l’arresto di Margherita per terrorismo e la sua confessione portano in una normale famiglia borghese. Qual è il motivo di questa scelta?
È lo sguardo dal salotto di casa. Una casa borghese. Le vicende del terrorismo sono storie che hanno squartato i rapporti familiari, tra padri e figli, tra fratelli… e mi piaceva che questo ci fosse nel romanzo. Inoltre analizzare il cambiamento dei rapporti privati che la violenza ha provocato consente di osservare in maniera indiretta, ma anche più coinvolgente e immediata, quello che è successo in piazza.

La legge sui pentiti permette a Margherita uno sconto di pena ma lei vive come un tradimento il suo essere una pentita tantoché vorrebbe ritirare la sua confessione. L’accecamento ideologico le impedisce di vedere che i terroristi sono dei criminali.
Marghe ha bisogno di vedere colpito ciò che ha di più caro (il fratello) per rendersi conto delle conseguenze terribili delle azioni del suo gruppo. Prima la violenza aveva effetti che si sentivano lontani.

La legge sui pentiti provocò tra l’altro grande malcontento tra le vittime che si consideravano offese, defraudate dalla giustizia e invocavano semmai pene più dure. Lei cosa ne pensa?
Ricordo il gran dibattito che quella legge ha portato con sé: nelle aule delle università, nei tribunali, a scuola, nei bar, in famiglia. Ricordo che allora ero confuso di fronte ai pareri così diversi dei miei professori. Credo che alla fine la legge sia servita, si tratta poi di un tipo di legge applicata in altri paesi, ma è anche un provvedimento che ha portato con sé anche tante situazioni difficili.

Una cosa che forse abbiamo dimenticato o a cui non pensiamo più e che il libro fa vedere benissimo è che molti terroristi erano ragazzi giovanissimi, come Margherita…
Sì, è una delle cose che colpisce di più nel riprendere in mano gli articoli di giornale di quel periodo. Giovani. Giovanissimi. Non è un alibi e nemmeno una colpa in sé, solo un dato di fatto triste nel pensare a una generazione che si è perduta.

Il periodo che mette a fuoco nel romanzo era totalmente ideologizzato e politicizzato. Oggi invece i giovani mostrano un generale disinteresse per la politica. C’è un modo per riavvicinare le nuove generazioni alla politica?
Nell’ultimo periodo qualche segno del riappropriarsi dei temi sociali da parte dei ragazzi lo stiamo vedendo: si pensi alle battaglie sul clima, ma è innegabile che la dimensione politica, collettiva di un tempo non esiste più. Lo dico senza nostalgia, senza giudizio. Ho trovato molto stimolante confrontarmi con insegnanti e ragazzi sulle differenze e credo che proprio questo sia utile, il parlare, il raffrontare generazioni così diverse.

Uno dei temi cardine del romanzo, come già in “Qualcosa ci inventeremo” è la fratellanza: il rapporto tra Martino e Margherita ha un ruolo di primo piano. Perché ha insistito così tanto su questo legame?
Nei miei ultimi libri i fratelli ci sono quasi sempre. È un tassello, un rapporto della famiglia su cui ho lavorato spesso. A volte ci sono scontri o indifferenze (è il caso di Marghe e Sara) a volta è comprensione totale, anche in silenzio, anche a distanza (è il caso di Marghe con Martino). Sono rapporti in divenire negli anni, ma anche nei giorni. L’adolescenza è una macchina in corsa e i fratelli si corrono accanto.

Anche la difficoltà della comunicazione e del rapporto tra generazioni diverse è un tema che ricorre nei suoi libri. In questo caso il dialogo tra Margherita e i genitori è spesso difficilissimo, a tratti, impossibile. È davvero così difficile il dialogo tra generazioni?
È difficile ma non impossibile. È una sfida bellissima. È quella che fanno i personaggi dei miei libri, è quello che provo a fare io nella mia vita privata e in ogni incontro con le scuole che vivo come esperienza unica.

C’è tantissima musica in questo romanzo: Bob Dylan e Jimy Hendrix, Bob Marley, Pink Floyd, Who… Come mai ha voluto dare alla musica un ruolo così centrale?
La musica segna l’epoca, segna un momento di cambiamento a Milano e in Italia quando coesistevano Bob Dylan e la disco music, un mondo che si chiudeva e un altro che stava arrivando prepotente. Ma la musica è di più, accompagna ogni istante, ogni cambio di umore e di registro dei personaggi, dalla rabbia con la schitarrata di Hendrix alle note della musica classica nel carcere di San Vittore.

Nei suoi libri si nota la ricerca di uno stile semplice e diretto, capace di arrivare a tutti senza tradire la complessità delle cose. È una scelta voluta?
Sì, è qualcosa che ho cercato negli anni. Ho lavorato molto sulla semplicità e sul tono di una voce colloquiale cercando di non andare mai a scapito della precisione e della cura della lingua. La profondità la cerco nelle pieghe dei personaggi, nel doppio fondo della situazione. Sono sempre alla ricerca di una scrittura che arrivi a più livelli provando a non perdere nessuno per strada.

Giorgio Scianna, scrittore, è nato a Pavia nel 1964. Tra le sue attività ricordiamo la collaborazione con la rivista Linus.
Tra le sue pubblicazioni: Fai di te la notte (Einaudi 2007), Diciotto secondi prima dell’alba (Einaudi 2010), Qualcosa c’inventeremo (2014), La regola dei pesci (2017), Cose più grandi di noi (2019).