Intervista a Patrizia Cavalli su “Con passi giapponesi”

“Con passi giapponesi” di Patrizia Cavalli, pubblicato da Einaudi e arrivato tra i cinque finalisti del Premio Campiello, è un’opera alquanto difficile da classificare. Innanzitutto è il primo libro in prosa di una poetessa che, a partire dal 1974, con la raccolta “Le mie poesie non cambieranno il mondo”, ha portato l’arte del comporre versi a livelli altissimi. E si sente, perché anche nei passi più distesi della prosa, la lingua viene cesellata in modo raffinatissimo, mantenendo la luminosa densità e la fresca musicalità delle sue poesie. Risulta poi difficile incasellare questi testi dalla forte matrice autobiografica: a prima vista, possono sembrare meditazioni, ricordi, ritratti, per lo più femminili, racconti come “Il ladro di lenzuola”, apologhi, ma in verità, la scrittrice forza i confini di un genere ben preciso affidandosi al suo estro immaginifico e alla sua indomita volontà conoscitiva ed esplorativa. E come gli eterogeni e irregolari pezzi di marmo vengono uniti gli uni agli altri nel racconto “Opera incerta” per formare un imprevedibile ma armonioso disegno, allo stesso modo, tutti i tasselli che compongono il libro trovano alla fine un incastro perfetto.

Il libro si intitola “Con passi giapponesi” come il primo racconto. La protagonista cammina con questa andatura dopo un’infusione di realtà, che la solleva “al miracolo dei contrari che si toccano”. Come mai ha scelto questo titolo? Camminare con passi giapponesi significa forse trovare una provvisoria armonia dei contrari? O significa qualcos’altro?
Non direi che il titolo ha un particolare significato rispetto al senso del libro, o che contenga un’indicazione poetica o morale, ma vuole attirare il lettore per una certa stranezza e comicità. Il motivo per cui il libro prende il titolo da questo racconto è perché è il pezzo a cui ho lavorato di più, che mi ha richiesto maggiore tempo e concentrazione. L’ho scritto in un periodo in cui mi sono abbandonata con fervore alle dolcezze dell’odio, il quale è un potentissimo eccitante per l’immaginazione, e che in questo caso è riuscito a produrre ciò che altrimenti, attraverso il solo sforzo della volontà, non sarei mai riuscita a fare.

Delle sue poesie lei ha detto che sono tutte respiri che pensano. Anche le prose sono respiri che pensano? Qual è per lei, a livello creativo, la differenza sostanziale tra le due?
Direi che prosa e poesia hanno respiri diversi, in quanto possiedono ritmi e musicalità differenti. Per quanto mi riguarda, la differenza tra la poesia e la prosa concerne soprattutto l’impegno che richiedono: la poesia arriva, e in un certo senso è già pronta, la si accoglie secondo la sua propria misura. Richiede uno speciale tipo di attenzione. Per un carattere indolente, come il mio, è l’ideale. La prosa, invece, non ha una misura definita, e va dunque maneggiata con un rigore maggiore, con una certa continuità.

Come nelle poesie, anche nelle sue prose, si sente, molto più che in altri autori, una fortissima ricerca della parola giusta, esatta – quella e nessun’altra – nonché del giusto ritmo della frase. Da dove nasce questa fortissima tensione che la anima? È un modo per cercare di afferrare il pensiero e la realtà che fuggono?
È molto difficile, per me, parlare delle intenzioni che muovono la scrittura, perché non credo molto nelle intenzioni. L’esattezza della parola, il ritmo serrato, sono qualcosa che a un certo punto arriva se si è disposto un certo congegno retorico e linguistico, che nessuna buona intenzione può donare. Ciò che accade nella scrittura è la possibilità che le cose, che fino a quel momento esistono ai margini, in una specie di nebulosa oscura, si rivelino nella lingua con una sorta di splendore involontario, che io sono quasi costretta a registrare con ubbidienza.

In questo libro lei mostra di eccellere nell’arte del ritratto, fisico e psicologico, fatto attraverso le parole. In particolare vi sono molto ritratti femminili: sua madre, la protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta, le gattare, sua nonna… La presenza dell’elemento maschile è invece molto più marginale. Come mai questa forte attenzione alla dimensione femminile?
I motivi possono essere di varia natura, di origine biografica forse, ma non ne saprei davvero rendere conto. È accaduto così. Gli uomini mi sono apparsi meno interessanti. 

In “Gattare” compare di sfuggita anche la figura di Elsa Morante, il cui grande amore per i gatti la porta a dire, in una notte di capodanno, “Potere ai gatti”. A Elsa Morante è anche dedicata la sua prima raccolta “Le mie poesie non cambieranno il mondo”. Che cosa ha rappresentato per lei questa grande scrittrice?
Ho descritto tante volte l’incontro con Elsa Morante e il suo avermi dichiarato, un giorno, poeta. Ho ammirato infinitamente Elsa, ho a lungo desiderato essere vista e descritta da lei. Elsa temeva soprattutto la noia e avrebbe fatto qualunque cosa pur di non doverla subire o di produrla negli altri, tanto che spesso questo timore la spingeva in atti barbari, con i quali sperava di spezzare quell’involucro di buone maniere e di convenzioni con le quali si presenta la maggior parte della gente.

Uno delle parole ricorrenti del libro è immaginazione e la forza dell’immaginazione è protagonista di molti testi. Cosa rappresenta per lei l’immaginazione? 
L’immaginazione è la più potente capacità umana, da cui dipendono molte gioie ed euforie ma anche le più profonde e persistenti infelicità.

Le sue poesie e le sue prose hanno un forte carattere ragionante ed esplorativo. Assieme al piacere del ragionamento arguto si nota però anche un certo distacco ironico sulle capacità della mente di disbrogliare la matassa dell’esistenza e dell’esistente.  È così?
Sì, ci sono entrambi questi momenti. Quello “ragionante” è fondamentale, eppure le mie poesie nascono quasi sempre da una interruzione del ragionamento ossessivo. Non chiamerei però questa interruzione “ironica”. L’ironia suppone un distacco che nel mio caso non c’è mai, ma c’è piuttosto una forma di adesione comica alle cose.

In diverse prose ritorna il gusto di preparare il cibo per gli altri. Preparava davvero queste cene sontuose di cui parla? Il cibo viene tra l’altro strettamente legato all’amore tanto che lei scrive: “Vicino all’amore c’è sempre stato qualcosa da mangiare”. In che modo cibo e amore si legano tra loro?
Sì, la cucina è stata per me uno dei fondamentali mezzi di seduzione. Anche qui ha una grande parte l’immaginazione, e chi è privo di immaginazione difficilmente può cucinare buoni piatti. Come in amore, anche le ebbrezze della cucina non vengono tanto dall’atto di consumare qualcosa, ma dalla possibilità di pregustare e di ricordare, dalla promessa e dalla nostalgia.

L’amore è tra l’altro un tema frequente nella sua poesia e compare anche in alcune prose come in “Arrivederci anzi addio”. Esso appare spesso come un sentimento intenso, luminoso, ma nello stesso tempo impastato di finzioni e fatto di continui squilibri, disarmonie e destinato ad un’inevitabile estinzione…
“Arrivederci anzi addio”, che è cronologicamente il primo dei testi raccolti in questo libro, è la descrizione dettagliata del teatrino della gelosia, dell’amore come ossessivo delirio interpretativo, che a tratti assume toni involontariamente comici.

In vari racconti, ad esempio nel primo racconto della sezione “Varietà” mentre sta salendo verso San Michele, l’io narrante vive dei momenti di estatica felicità. Essa pare realizzarsi in modo assoluto solo nella contingenza, nell’ebbrezza dell’apparenza. Sembra inoltre che la felicità richieda uno stato di abbandono e di dimenticanza di sé stessi. Consiste in questo la vera felicità?
Non so davvero in che cosa consista la “vera felicità”. So che per me non consiste tanto in un sentimento o in un’acquisizione interiore, ma ha molto a che fare con la dimensione dei sensi, quando il bene mi appare sensibilmente, imprimendosi nei miei nervi e nelle mie narici. In quel momento si può accendere la sensazione di un’appartenenza originaria, che in un poemetto di qualche anno fa ho chiamato “la Patria”. Non direi tanto che è una dimenticanza di se stessi, rispetto al mondo, ma piuttosto un pareggiamento dei conti.  

Parafrasando la sua prima raccolta poetica, pensa ancora che le sue opere non cambieranno il mondo o oggi è più fiduciosa sulla possibilità dell’arte e della bellezza di rendere un po’ migliore la realtà che ci circonda?
Non credo alla cosiddetta realtà, come se ci fosse un mondo di fatti che stanno lì belli e pronti a farsi modificare a piacimento, e senz’altro la poesia non serve a migliorare nulla. Al massimo la poesia può cambiare me stessa che le scrivo, quando le scrivo, e qualcuno che le legge.

In molti racconti emerge un forte senso del possesso verso gli oggetti. Questo fortissimo attaccamento agli oggetti, nel testo “La casa”, comporta addirittura l’impossibilità di cambiare la loro disposizione. Come mai gli oggetti sono così importanti per lei?
Ho dei legami strettissimi con gli oggetti, a volte tengo più a un oggetto che ad una persona. Gli oggetti sono più sicuri delle persone, stanno fermi, sono quel che sono. Se viene spostato qualcosa a casa mia divento pazza. Perché non sopporto che i miei occhi che si erano posati su qualcosa e che sapevano di poter ricorrere a quegli oggetti, improvvisamente non ci siano più. Il loro spostamento mi produce delle furie spaventose.