Intervista a Laura Pugno sulla poesia

Foto di Elio Mazzacane

Anche se è nota soprattutto per i suoi romanzi, in particolare “Sirene” e “La ragazza selvaggia” (Premio Selezione Campiello 2017), Laura Pugno ha sempre considerato la poesia come forma espressiva imprescindibile della sua ricerca artistica. La scrittura in versi rappresenta per lei un’esplorazione delle frontiere della lingua mentre la prosa è il momento in cui il bottino di queste esplorazioni viene riportato alla comunità. Le diverse raccolte finora pubblicate, tra cui “Bianco” (Nottetempo), “I Legni” (LietoColle), “L’alea” (Perrone editore) e “Noi”, appena uscita per Amos Edizioni, tracciano un percorso originale e affascinante. La sua poesia, materica e rarefatta, nitida ed enigmatica, arcaica e moderna, si nutre di abbacinanti contrasti che tentano di superare una visione manichea del mondo per dar spazio al perenne divenire e trasformarsi delle cose. Altro tassello importante della sua produzione legata alla poesia è il recentissimo “Oracolo manuale per poete e poeti” (Sonzogno), scritto insieme a Giulio Mozzi, nel quale sono raccolti moltissimi illuminanti suggerimenti e stimoli rivolti ad aspiranti poeti.

Lei ha scritto che se fosse obbligata a scegliere tra poesia e prosa, rinuncerebbe a quest’ultima. Per quali ragioni la poesia è così fondamentale per lei?
La poesia è per me la forma naturale, quella in cui affiora spontaneamente la scrittura. Tutte le altre forme che ho praticato, la prosa come racconto o romanzo, la sceneggiatura, la drammaturgia, il saggio, sono in qualche modo venute dopo, e riportano a quella fonte prima, pur nella diversità di mezzi, modi, regole del gioco.

Insieme a Giulio Mozzi lei è l’autrice de “L’oracolo manuale per poete e poeti” da poco uscito per Marsilio che raccoglie una serie di suggerimenti e stimoli rivolti ad aspiranti poeti e non solo. Un libro giocoso ma allo stesso tempo molto serio. Qual è il fine principale di questo libro nelle vostre intenzioni?
Accompagnare la lettrice, il lettore, in un addestramento alla consapevolezza, delle scelte fatte e non fatte, delle vie intraprese e di quelle non intraprese, che personalmente ritengo fondamentale non solo in poesia, ma nella vita.

Tra tutte le massime contenute nell’Oracolo quale sente più vicina e perché?
Ne sento vicine molte, naturalmente, se non tutte, ma qui vorrei citare “Frattali”, e il suo commento:

Il tutto nell’atomo, l’atomo nel tutto.

La natura, dicono i matematici e gli scienziati, sembra lavorare secondo un principio ricorsivo di autoaffinità, di autosimilarità, per cui forme e modelli si ripetono, simili ma non identici, tra il microcosmo e il macrocosmo. (In fondo, gli alchimisti non dicevano poi qualcosa di tanto diverso.) La poesia funziona nello stesso modo, è ricorsiva dai minimi elementi che la compongono alle sue massime unità, è una spirale di Fibonacci.”

Ciò a cui si accenna in questa massima è il principio intensamente ritmico, che in ogni sua forma storica e preistorica domina sempre la poesia; e insieme. la profonda unità tra noi e noi stessi, e tra noi stessi e il mondo che la poesia stessa ci rivela. Il che mi porta alla domanda che segue.

“Il corpo è la mente. La mente è il corpo”. Questo pensiero ritorna in modo ossessivo nei suoi testi, tanto che lei stessa ha scritto che la sua ricerca consiste nel tentativo di saldatura tra corpo e mente. Come mai questo concetto è così centrale per lei?
Nella vita di ogni giorno, questo sentimento – questa sensazione, questa percezione – di unione tra corpo e mente, mente e mondo – ci sfugge continuamente. Appare e scompare tra il folto. Ma è in quella direzione che ci porta a guardare la poesia, agendo su di noi non solo mentalmente ma appunto fisicamente, con lo stesso potere della musica.

“Vai nel bosco, non tornare, torna / vai nel bosco, non tornare / torna”. Termina con questi versi “Ora ultima” tratto da “L’alea”. Il bosco, che richiama un’altra parola chiave della sua poetica cioè “selvaggio”, è una presenza costante nelle sue opere. Come mai? Cosa rappresenta per lei?
Una porta che noi stessi – come soggetto, come storia o come società – abbiamo in un certo momento deciso di chiudere, ma che potremmo aprire o riaprire, e oltre la quale c’è qualcosa di misterioso e di fondamentale. Il luogo in cui siamo e che siamo.

Altro elemento che ritorna in modo costante nelle sue poesie è il bianco, tanto che una sua raccolta si intitola così. Il bianco è anche quello della pagina, che nei suoi versi assume un valore molto più forte che in altri poeti…
È il respiro, il silenzio in cui la parola diventa possibile, la possibilità di un nuovo inizio. Il bianco ci fa percepire il ritmo, lo spazio, il tempo del testo. Su questi temi, e su nolto altro, invito chi ne abbia voglia a leggere il saggio molto bello di un poeta, Stefano Dal Bianco, che è uscito da poco per le edizioni Quodlibet, e che parla proprio di questo.

Nella sua poesia c’è sempre un tu, mentre l’io è perennemente nascosto. Quali sono le ragioni di questa scelta?
A livello personale, una certa riservatezza di carattere, anche se, lo sappiamo, l’io che scrive non è l’io che vive; e poi l’io è l’uno che per definizione è il molteplice. Anche in prosa scrivo quasi sempre in terza persona, solo raramente in prima, anche quando la prima persona è la voce di uno o più personaggi. La terza persona immette distanza. Invece, in poesia, la seconda persona, il tu, chiama in causa, avvicina, porta a incandescenza. Se l’io si nasconde è nel tu. Ma nella mia ultima raccolta, che è appena uscita per Amos edizioni, nella collana A27 a cura di Sebastiano Gatto, Maddalena Lotter e Giovanni Turra, entra in gioco una prima persona plurale, infatti il titolo è “Noi”. Sono poesie d’amore, quindi in realtà torniamo al tu e al suo io, ma il noi comporta sempre la creazione di un mondo, nello spazio e nel tempo:  come dicevo prima, e come fa la poesia.

Nel saggio “In territorio selvaggio” lei scrive: “ci sono poche cose che ho desiderato di più di una comunità”. Cos’è per lei una comunità e perché è così importante? 
Forse perché ho sempre attraversato mondi e ambienti diversi, città, Paesi. Così, nella mia vita, le amicizie che sono durate sono sempre state dentro e attraverso la scrittura, me ne rendo conto con chiarezza adesso, a distanza di anni.

Se si leggono cronologicamente tutte le sue raccolte, l’impressione è che la sua poesia si sia aperta sempre più al mondo, soprattutto all’ambiente naturale, e agli altri. Cosa l’ha portata a questa maggiore apertura?  
Sì, è così, ed è un fenomeno che non riguarda solo me. La poesia italiana, da qualche anno, cerca una lingua diversa, che porti con sé tutto quanto il Novecento ci ha dato ma si spinga anche oltre, senza rinunciare a niente. Una poesia per gli anni che stiamo vivendo, per il tempo che stiamo vivendo adesso e in cui la poesia è viva con noi.

Nel saggio “In territorio selvaggio” lei ha scritto che la poesia è una forma di esplorazione delle frontiere della lingua mentre la prosa consiste nel riportare alla comunità il bottino di quell’esplorazione. Potrebbe spiegarci meglio la dinamica che lega poesia e prosa nella sua ricerca artistica?
La poesia, come dicevo, per me viene prima. Le immagini, le domande, i nuclei che daranno vita alla scrittura quasi sempre appaiono prima nei versi. Poi, evidentemente tramite canali di comunicazione sotterranei, possono apparire altrove. In prosa, ma anche, come dicevo, in altre forme, il saggio per esempio. Ultimamente mi tenta molto il teatro. Ancora sulla prosa, cito ancora Giulio Mozzi, “il raccontatore di storie getta storie dentro la sua comunità”. Chiediamoci quanto siamo consapevoli delle storie che vengono gettate dentro la nostra comunità, quanto siamo capaci di interrogare queste storie, di cercare le loro domande più che le risposte, di non fermarci alle risposte che ci danno ma di formulare nuove domande.

Come ha scritto Massimo Gezzi, per descrivere la sua poesia si sono spesso usate formule complesse tendenti all’ossimoro: trasparente ed ermetica, corporea e astratta, calma e violenta… In effetti la sua poesia è fatta di abbacinanti contrasti. È un modo per cogliere una realtà in perenne trasformazione? O c’è qualche altra ragione?
Il cambiamento, la metamorfosi, sono forse l’unica verità a cui possiamo afferrarci. Eraclito e Parmenide hanno ragione entrambi, si trasformano l’uno nell’altro, ma quello che scrive Eraclito possiamo vederlo ogni giorno nel mondo con i nostri occhi. Per intuire ciò di cui ci parla Parmenide ci serve la poesia.

La sua poesia è molto originale e si fatica ad individuare i modelli che l’hanno influenzata. Quali sono gli autori fondamentali nella sua ricerca poetica?
Ho letto con passione poete e poeti – per citare il titolo dell’Oracolo manuale –  di ogni tempo e anche di molte lingue, ma non ho mai pensato alla mia scrittura in termini di genealogia. Forse per questo faccio sempre fatica a tracciare ascendenze, e lascio volentieri questo lavoro alla critica.

Lei ha scritto che la poesia è una forma di conoscenza in spirale intorno ad un centro vuoto che lei identifica con il soggetto scrivente. Perché un movimento in spirale attorno ad un centro vuoto?
Perché comporta un avvicinamento e un allontanamento continui. L’orizzonte della poesia è mobile, e l’orizzonte degli eventi, lo sappiamo, è il futuro.

Nel saggio “In territorio selvaggio” prende un po’ le distanze dalle tendenze del romanzo contemporaneo che mira soprattutto a dare un facile conforto al lettore. Quali vie dovrebbe seguire, invece, secondo lei letteratura?
La posizione del mio saggio non è manichea, e io sono sempre stata per la democrazia delle poetiche. La letteratura, però, è un oceano e non una piscina….

Sempre nel saggio “In territorio selvaggio” lei fa riferimento al concetto di “terzo paesaggio” che sarebbe costituito dall’insieme dei luoghi abbandonati dall’uomo e che rappresenta un territorio di rifugio per la diversità. Lei scrive che la poesia è in un certo qual senso un terzo paesaggio. In che senso?
Quella tra poesia e Terzo paesaggio, concetto coniato dal paesaggista francese Gilles Clément, è un’analogia che ho tracciato nelle ultime pagine di In territorio selvaggio, che poi sono state le prime che ho scritto, e soprattutto un utile strumento di indagine: davvero possiamo dire o pensare che oggi la poesia sia l’incolto dell’editoria, o un luogo rimasto, o ritornato, ammesso che esista, allo stato di natura? Che tipo di pensieri ci induce a pensare questa immagine, senza preconcetti, senza pregiudizi? Da quasi un anno tengo sul sito Le parole e le cose una rubrica che si intitola appunto Poesia, terzo paesaggio? (http://www.leparoleelecose.it/?tag=poesia-terzo-paesaggio), col punto interrogativo….., e che chiama a rispondere a un identico questionario poeti, scrittori, e ora anche artisti, filosofi e altre figure. È interessante notare, e potrebbe essere il punto di partenza di un nuovo saggio, come le risposte di quasi tutti vertano non tanto sull’ipotetico giardino della letteratura – che lo sappiamo, non è affatto un giardino – ma, diciamo così, sul bosco del mondo. Potrebbe essere il punto di partenza di un nuovo saggio.

Laura Pugno è nata a Roma nel 1970. È autrice di poesia, prosa, saggi e testi teatrali. Tra gli ultimi libri, i romanzi La metà di bosco (Marsilio, 2018) e La ragazza selvaggia (Marsilio, 2016); il saggio In territorio selvaggio. Corpo, romanzo, comunità (Nottetempo, 2018) e le raccolte di poesia I legni (Pordenonelegge-Lietocolle, 2018), L’alea (Perrone 2019), Noi (Amos edizioni 2020). Ha vinto il Premio Campiello Selezione Letterati, il Premio Frignano per la Narrativa, il Premio Dedalus, il Premio Libro del Mare e il Premio Scrivere Cinema per la sceneggiatura. Collabora con «L’Espresso», «Elle», il sito Le parole e le cose, ed è tra i curatori della collana di poesia I domani di Nino Aragno Editore. Dal 2015 al 2020 ha diretto l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid. Nel 2020 per Sonzogno insieme a Guido Mozzi ha pubblicato Oracolo manuale per poete e poeti.