“Il terrorista”: Intervista a Gianfranco de Bosio

Tra i film dedicati alla Resistenza, Il Terrorista di Gianfranco De Bosio, girato dal regista veronese nel 1963, sorprende ancora oggi per la sua asciutta lucidità e  straordinaria attualità. Se ne è accorto subito il partecipe pubblico intervenuto alla proiezione al cinema Busnelli di Dueville nell’ambito della rassegna cinematografica Memoria Resistente, organizzata in occasione del sessantesimo anniversario della liberazione d’Europa. Il film, ambientato a Venezia alla fine del ’43, ruota attorno a due nuclei narrativi strettamente connessi tra loro: il primo si focalizza sulla figura dell’ingegnere Renato Braschi, interpretato magnificamente da Gian Maria Volonté, e sugli atti di sabotaggio che compie contro i tedeschi con l’aiuto di un gruppo di partigiani; il secondo si concentra invece sulle posizioni e sulle discussioni dei partiti del Comitato di liberazione nazionale (C.L.N.) i quali, pur essendo tutt’altro che concordi tra loro, mirano ad una politica di maggior cautela rispetto a quella dell’ingegnere. Le riunioni del C.L.N. rappresentano una sorta di commento alle fasi attive della storia. Come ha scritto Tino Ranieri in un saggio dedicato al film, quest’opera ha il coraggio delle idee, e soprattutto delle idee parlate e scambiate.
La serata è stata impreziosita dalla presenza dello stesso De Bosio che ha parlato a lungo del film e al quale abbiamo rivolto alcune domande.

Tutto quello che si vede nel film è ispirato a fatti realmente accaduti?
Ero giovanissimo quando sono entrato nella Resistenza, e questo film è costruito tutto con ricordi personali. Io ho avuto la fortuna, o la disgrazia, di far parte a Padova dei Gap, che avevano varie denominazioni a seconda del colore politico: Gruppo d’azione proletaria, Gruppo d’azione partigiana, Gruppo d’azione patriottica. Da questi tre nomi si capisce già che la Resistenza non era monolitica ma variata. Il film, che è stato restaurato in questi ultimi mesi, racconta la Resistenza vista dal di dentro con le varie divergenze tra i partiti. La divergenza centrale era su un tema oggi purtroppo di attualità, il terrorismo.

Come mai avete scelto un titolo così forte?
L’abbiamo scelto proprio per la sua valenza offensiva. Il titolo Il terrorista si rifà alla denominazione che i tedeschi davano ai partigiani che facevano attentati dinamitardi e che cercavano in  qualche modo di dimostrare la loro opposizione nei confronti dell’occupante. Parlare di occupante e di reazione all’occupazione fa venire un po’ i brividi oggi pensando a quello che sta succedendo in Iraq. In realtà le cose raccontate in questo film sono molto diverse e non paragonabili. In ogni caso noi non pensavamo che fosse terrorismo. Nonostante ciò, durante gli anni delle Brigate Rosse il film è stato proibito perché alcuni gruppi lo strumentalizzavano usandolo per la propaganda. In realtà il film è molto più circospetto. Per definirlo, userei il termine shakesperiano. L’azione violenta alla fine si ritorce contro. L’ingegnere è apprezzabile però paga con la vita. Violenza chiama violenza. Se si comincia con i delitti la conseguenza è la guerra tra gli uomini, una guerra che non si riesce ad interrompere.

Può parlarci di Otello Pighin, il comandante a cui è ispirata la figura dell’ingegnere Renato Braschi?
Il film racconta la storia del mio comandante, Otello Pighin. La figura dell’ingegnere Renato Braschi, adombra quella del mio comandante, che aveva il suo centro di attività clandestina all’università di Padova. Le bombe venivano fabbricate nell’istituto di farmacologia. Otello Pighin era il capo dei partigiani. Lui concepì un disegno gappista. La sua idea era che bisognava mettere il terrore nei fascisti e nei tedeschi con un attentato al giorno. Eravamo tutti un po’ atterriti dalla sua presenza e nello stesso tempo ammirati. Nel clima di terrore instaurato dai fascisti e dai tedeschi c’erano persone come l’ingegnere che sostenevano che si doveva combattere senza mai piegarsi. Come si vede nel film Pighin è stato ucciso in un’imboscata che gli è stata tesa.

Per quale ragione il film è stato ambientato a Venezia?
Nel film si trovano assieme episodi avvenuti a Padova ed episodi di Venezia, anche se poi ho ambientato tutto a Venezia, Questo perché volevo dare un’immagine visiva alla storia di alto livello poetico e inserire l’attualità di allora in una città fuori dal tempo com’era Venezia. Ho voluto questa città anche per avere un supporto visivo più certo. Padova nel 1963 aveva già cambiato volto, mentre Venezia era rimasta sostanzialmente la stessa.

Uno dei grandi meriti del film è quello di mettere in scena, con straordinaria attenzione alle sfumature, le divergenze all’interno del C.L.N.
Di questa storia mi ha interessato molto il dibattito all’interno della Resistenza tra i partiti del C.L.N. I partiti del C.L.N. erano il Partito liberale, il Partito democristiano, il Partito d’azione, il Partito socialista e il Partito comunista. Nei rapporti tra i partiti si vedono molti elementi che sembrano di oggi. I cinque partiti della Resistenza avevano tutti una diversa posizione, in particolare nei confronti della cosiddetta azione terroristica. Non tutti condividevano questa linea, che era appunto quella di Pighin, e nel film si cerca di mostrarlo in modo obiettivo. Alla fine l’ingegnere sparisce e si assume tutta la responsabilità personale per non essere costretto alla disciplina. Si può discuterne, si può dire che ha sbagliato, però se non ci fosse stato lui e tanta gente come lui, forse l’Italia non avrebbe dimostrato una ferma opposizione antifascista e antigermanica. Mi interessava dare una giustificazione a tutti, anche ai liberali che secondo me sono fuori dalla storia. Ad esempio, trovo il personaggio di Neri Pozza, che interpreta il secondo liberale, bellissimo. Ho cercato di immedesimarmi in tutti i personaggi. Solo così si può fare un’azione poetica.

Nel film ad un certo punto si fa riferimento al potere anestetizzante della pace e dell’abbondanza. Sembra un attualissimo monito rivolto al presente.
Il film è stato scritto e girato nel ’63, quindi vent’anni dopo i fatti. Con una volontà, da un lato di ritrovare quel  tempo, dall’altro di fare un ragionamento sull’attualità. Le giovani generazioni sentono molto questa scena, perché probabilmente colgono qualcosa di vero. Il film vuole riproporre un’esigenza di pulizia interiore e di convinzioni ferme e precise. In questa scena si percepisce l’idea che bisogna inseguire una piena consapevolezza e che si deve rischiare per i propri ideali.

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