Intervista a Édouard Glissant

Ancora poco conosciuto nel nostro paese, Édouard Glissant merita senza dubbio una maggiore attenzione da parte del pubblico e dell’editoria italiani. La sua densissima opera narrativa, poetica e filosofica invita il lettore a compiere un viaggio insolito, che disorienta e che nello stesso tempo indica nuove forme di orientamento, di conoscenza e un nuovo modo di stare al mondo. Uno dei momenti più intensi del recente festival Azioni Inclementi, tenutosi a Schio presso la Fabbrica Alta, è stato senz’altro il suo breve ma incisivo intervento. Grazie anche alla collaborazione di Marie-José Hoyet, docente di letteratura africana e caraibica all’Università dell’Aquila, siamo riusciti a rivolgere alcune domande a Glissant.

L’espressione Tutto-mondo, oltre a dare il titolo al suo romanzo del 1993, tradotto solo pochi mesi fa in Italia, è un concetto chiave per capire la sua opera. Può riassumerci brevemente il suo significato?
Il Tutto-mondo è il mondo quale noi impariamo insieme a conoscere e a vivere senza che si dimentichi una sola delle sue parti. In esso non c’è una parte conosciuta e una parte sconosciuta. Nessuno popolo, nessun paese, per quanto piccolo sia, nessun individuo deve essere dimenticato. Non è un mondo ideale, universale. È un mondo in cui tutte le differenze tra i paesi e i popoli, tutte le particolarità sono messe insieme in modo che noi troviamo una nuova maniera di frequentare la realtà.  Entriamo tutti insieme in questo tutto-mondo. Popoli che erano sottomessi e popoli che erano colonizzatori. È necessario rifondare il senso della relazione tra i popoli.

In molti suoi saggi e romanzi lei parla di “creolizzazione”. Questo termine però per lei non ha solo un significato linguistico…
Quando dico che il mondo si creolizza non significa che diventa creolo, come me, che sono un creolo dei caraibi. Il mondo si creolizza perché raggiunge il sentimento della sua diversità. Questo essenzialmente è la creolizzazione. Perché ho chiamato questo creolizzazione? Perché le lingue creole sono costituite da elementi lessicali e sintattici venuti da tutte le parti e assolutamente estranei gli uni agli altri. Allo stesso modo le culture del mondo, assolutamente estranee le une alle altre, si incontrano, si oppongono, si combattono, si armonizzano e danno risultanti assolutamente imprevedibili così come le lingue creole erano assolutamente imprevedibili. Questa particolarità della creolizzazione fa sì che non si possano definire regole di condotta per nessuno. Siamo tutti solitari in questa situazione. Non abbiamo regole superiori, abbiamo regole che traiamo da noi stessi. Questa è la regola numero uno di quello che chiamo la relazione.

In effetti, uno dei concetti chiave da lei formulati è la poetica della relazione, che si unisce strettamente ad altri due termini: identità e diversità…
La relazione è nello stesso tempo l’accordo con l’altro e la libertà per me di essere quello che voglio. Il bene e il male sono legati alla mia sensibilità del mondo. Questo è la creolizzazione. Nella creolizzazione sono capace di cambiare al contatto dell’altro senza perdermi e senza snaturarmi. Questo è veramente nuovo. Oggi il razzismo è molto forte e molta gente non accetta che io possa cambiare a contatto con l’altro. Questo è evidente in quelle città che erano nel pieno del processo della creolizzazione come Sarajevo o Beirut. Queste città sono state prese di mira da tutti gli integralismi del mondo perché erano città del futuro, della creolizzazione.

In che modo relazione, identità e diversità dovrebbero intersecarsi tra loro?
Quando si parlava di relazione si parlava di relazione tra simili. Io sono quasi come te e possiamo stare insieme. Però oggi la relazione il gesto del differente. E’ perché siamo differenti che possiamo essere insieme. Questa è la nuova condizione del mondo: accettare la differenza dell’altro. Questa è la vera lotta oggi nel Tutto-mondo. Posso accettare la differenza dell’altro perché la mia identità non è unica, non è un solo pezzo. La radice unica uccide tutto. La radice che va verso l’incontro dell’altra radice si chiama rizoma. Quando parliamo di relazione non parliamo di un’assenza di radice, parliamo di una radice che non uccide. Si tratta di un’identità-relazione. La cosa più importante è questa: come accettare la differenza dell’altro. Questa è la ragione di tutte le guerre di oggi: non accettare la differenza dell’altro. Questa è la questione che dobbiamo continuare a dibattere. Non potremo vincere una guerra, nessuno può vincere una guerra. Dobbiamo cambiare l’immaginario degli individui su questa questione della differenza. Se potessimo cambiare l’immaginario dei popoli su tale questione, questa battaglia potrebbe essere vinta, senza che vi sia un vincitore. Ognuno sarà vincitore.

Nei suoi romanzi, e la cosa appare evidente in Tutto-mondo, i personaggi vanno errando da una parte all’altra del mondo. Per quale ragione l’erranza è così presente nei suoi testi?
Perché nella letteratura tradizionale la questione è l’individuazione del personaggio, studiare il fondo del personaggio, trovare i suoi motivi, scavare nella sua psicologia profonda. Possiamo parlare di una letteratura dell’occidente che approfondisce l’interiorità. C’è una letteratura del sud che non approfondisce questo aspetto. Questa letteratura del sud ha legato la sua sorte alla sorte del paesaggio. Oggi si pensa che se tu uccidi il paesaggio uccidi l’uomo. Se uccidi il fiume, il mare, l’albero, uccidi l’uomo. Una nuova concezione della relazione tra l’umanità e il paesaggio. Tu non puoi illustrare questo punto se non vai nella tua immaginazione da un paesaggio all’altro. Questa è l’erranza. L’erranza non è perdersi, ma è creare un rapporto tra una piccola baia delle Antille e una baia dell’Italia, tra una piccola spiaggia del Brasile e un’immensa spiaggia del Sahara. Questa erranza ci insegna a frequentare il paesaggio e a creare una relazione tra paesaggi differenti. Credo che quando si crea la relazione tra paesaggi si crea anche la relazione tra uomini. Questa erranza non è turismo, è la capacità di vedere e sentire la tragicità che può esserci sotto il paesaggio. Il turista non vede mai sotto il paesaggio, scatta fotografie. Il paesaggio ha una storia, un inconscio, ha una forza, se tu non sei capace di sentire questo tu sei un turista, non hai una relazione con il paesaggio. Per questo il paesaggio in letteratura non è oggi uno sfondo ma è un personaggio. Non è il punto dove si svolge l’azione ma è l’azione stessa.

L’altro suo romanzo tradotto in Italia, Il quarto secolo, è considerato da molti uno dei più bei libri mai scritti sul tema della schiavitù. Com’è nato questo libro?
Quando ero giovane ho vissuto in una piantagione. Essa era un’eredità economica del sistema di schiavitù. I lavoratori abitavano una capanna che apparteneva al padrone. Dovevano comprare da mangiare alla spaccio del padrone. Se il padrone voleva poteva cacciarli e nessuno più gli dava da mangiare. Mio padre era una sorta di intermediario, di mediatore tra il proprietario e i lavoratori. Io ho vissuto con i figli dei lavoratori. Durante le vacanze, ogni giorno, i lavoratori narravano i racconti dei tempi antichi. Ho sentito ogni giorno, alle sette della sera, con la notte tropicale sopra le spalle, alla luce di una torcia, i lavoratori che raccontavano. Tutto quello che faccio in letteratura viene da qui, da quella maniera di raccontare, di dire senza però dire. L’opacità viene anche da qui.

I suoi libri appaiono non di rado difficili, criptici, labirintici. In essi si nota una notevole densità linguistica e concettuale. Lei, in una sua dichiarazione, ha rivendicato il diritto all’opacità…Per quale ragione?
Ci sono due risposte a questa domanda. La prima parte da William Faulkner. Egli apparteneva alla classe sociale dei padroni del sud degli Stati Uniti ed era completamente solidale con il sistema di piantagione. Però ha pensato una cosa incredibile ovvero che la dannazione dei bianchi del sud degli Sati Uniti era stata la creazione della schiavitù. Però non poteva dirlo perché faceva parte di quella classe. Ha così inventato una scrittura nuova che consiste nel dire senza dire pur tuttavia dicendo. È quello che io chiamo una scrittura differita. È una scrittura totalmente nuova. Ha insegnato questa tecnica a tutti gli scrittori del mondo. Questa è una maniera di introdurre l’opacità come via verso la verità. La verità non si dice direttamente, si dice attraverso una scrittura differita.
La seconda risposta è che tutta l’attività dell’occidente è stata quella di dire, quando conquistava il mondo, noi portiamo la civiltà, noi portiamo la luce, ma non era vero. Comprendere significa prendere con sé. Vuol dire applicare agli altri la tua stessa regola. Io dico che questo non è possibile. Non ho la pretesa di dirti come tu devi essere in riferimento al mio sistema di luce. Io reclamo il diritto all’opacità per tutti. Perché tu puoi essere incomprensibile per me però ciò non toglie che io posso mettermi in relazione con te.

(intervista uscita in forma ridotta su “Il giornale di Vicenza” del 5 agosto 2009)

Édouard Glissant è nato in Martinica il 21 settembre 1928, a Sainte-Marie, nel nord dell’isola ed è morto a Parigi il 3 febbraio 2011. Al liceo Shoelcher di Fort-de-France sarà allievo di Aimé Césaire, che lo inizierà al surrealismo, a Rimbaud e ai primi fermenti della négritude. Lascia la sua isola natale per proseguire gli studi a Parigi, alla Sorbona: sono anni di incontri preziosi, come quello con Frantz Fanon, di collaborazioni a riviste, come «Les lettres nouvelles», che Glissant dirige insieme a Roland Barthes, e di impegno politico anticolonialista. Il suo percorso letterario conosce poi una svolta nel 1958, quando il suo romanzo La Lézarde riceve il premio Renaudot.
Nel 1961 Glissant partecipa alla costituzione del Front Antillo-Guyanais, che milita per una decolonizzazione delle Antille e della Guyana francesi, ma il gruppo viene sciolto dal generale de Gaulle. Glissant viene arrestato ed espulso dalla Guadalupa. Tornato in Martinica nel 1965, vi fonda l’Institut martiniquais d’études, e pubblica, fra l’altro, il Discours Antillais (1981).
Dopo aver diretto per qualche anno il «Courrier de l’Unesco», Glissant ottiene l’incarico di Distinguished Professor all’Università della Louisiana. Nel 1994 la City University of New York gli offre una cattedra di letteratura francese. Negli ultimi anni numerosi premi e riconoscimenti internazionali, come ad esempio la laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Bologna (2004), hanno contribuito a mettere un pubblico sempre più vasto a contatto con i suoi scritti. Tra le sue numerose opere ricordiamo quelle accessibili in edizione italiana: Poetica del diverso (Meltemi 1998), Il quarto secolo (Edizioni Lavoro 2003). E’ morto a Parigi il 3 febbraio 2011.