Intervista a Patrizia Valduga

Requiem. Patrizia Valduga - Cultura - quotidiano.net

Patrizia Valduga è intrisa di poesia. Insieme al sangue, nelle sue vene, scorrono versi. Versi che escono dalla sua bocca con la stessa straziata e sanguinante forza con cui Pier Della Vigna, l’uomo albero, parla a Dante nell’Inferno. Una forza che ha profondamente emozionato le numerosissime persone intervenute al settimo incontro di Dire poesia 2010 per ascoltarla. Valduga ha recitato a memoria diversi testi di autori da lei sommamente amati, come Pascoli e Petrarca, ma ha anche offerto un’antologia dei suoi versi che ha attraversato le principali forme metriche da lei affrontate. La poetessa ha poi chiuso l’incontro recitando, con viscerale trasporto, le intense Canzonette mortali che Raboni, uno dei più grandi poeti del Novecento, morto nel 2004, le ha dedicato

Quando e come nasce come poetessa Patrizia Valduga?     
E chi lo sa. Se è vero quello che dice Foscolo: “I lettori di poesia sono creati dalla natura”, a maggior ragione lo sono i poeti. Allora sono nata come poetessa il 20 maggio 1953 a Castelfranco Veneto. E come nasce ogni altro essere umano.

La sua poesia è sempre stata iperletteraria e volutamente manierista. Quali sono i modelli che l’hanno influenzata di più?    
Penso che, oltre alle sei funzioni indicate da Jakobson per la lingua, la poesia possieda anche una funzione erogena, produttrice di piacere. Questo piacere è dato dalla successione ordinata di suoni e di ritmi. Amo la forma chiusa perché mi dà più piacere di quella aperta. Ma amo i barocchi quanto amo Pascoli e Raboni, che non mi sembrano né iperletterari né manieristi.

Quale esigenza l’ha portata al massiccio riuso della tradizione letteraria del passato, in particolare cinquecentesca?     
L’istinto: come dice Virgilio, “trahit sua quemque voluptas”, ognuno è al traino del suo piacere. Lì da loro, da Tasso e Strozzi, Veronica Franco e Giacomo Lubrano, mi ha trascinato tanti anni fa il mio piacere.

Lei ha dichiarato più volte la sua passione per la matematica. Questo si vede anche nei suoi testi, nei quali ha sempre rifiutato il verso libero, recuperando versi classici come l’endecasillabo e il settenario e forme chiuse come il sonetto, il madrigale, l’ottava, la quartina, eccetera. Come mai vi è in lei questa predilezione per i versi classici, per le forme chiuse? È mai stata attratta dal verso libero?
Amo anche i cosiddetti versi liberi, che – peraltro – liberi non sono mai per davvero; ma io non li so fare: se non ho una gabbia formale, non so quando andare a capo.

In un suo verso si legge: “Ho fantasie auditive, non visive”. E ancora, in Lezione d’Amore ha scritto:” Io che vedo con le orecchie, penso come Sade: “Le sensazione comunicate dall’organo dell’udito sono quelle che più lusingano e le cui impressioni sono più vive”. Questo senso, così centrale nella poesia, per lei sembra però rivestire un’importanza cardinale, assoluta…
Chi ama le parole ha questa ipersensibilità dell’udito, oppure, è l’innata ipersensibilità dell’udito che fa amare le parole.

L’erotismo nella sua poesia ha un ruolo di primissimo piano tanto da diventare un’esperienza conoscitiva.  Cosa rappresenta per lei l’erotismo? Come mai questo tema è per lei così centrale?     
Chi gode non parla di sesso; sono i disgraziati come me, il cui piacere difficile col tempo finisce per diventare quasi impossibile, che si sfogano così. Una volta ho risposto in questo modo alla domanda “Perché scrivi”: per cavare un po’ di piacere dalla lingua quando non mi riesce di cavarlo altrove.

Al tema dell’erotismo, si lega un altro tema centrale nella sua poesia, quello del desiderio, o meglio, dello strazio del desiderio. Nei suoi versi si mette in scena una lotta continua tra soggetto che ama e soffre e oggetto dell’amore che non ama e spesso punisce. Come mai la messa in scena della passione, nei suoi versi, assume, frequentemente, un carattere così cupo e mortifero?
Adesso penso che il desiderio sia una disgrazia, e credo soltanto nell’attrazione. L’attrazione è immediata e sempre reciproca (ce lo insegna Goethe nelle Affinità elettive), mentre il desiderio è sempre mediato e il mediatore, nelle persone che non si lasciano influenzare troppo dai media, è rappresentato sempre dai bisogni dell’amor proprio.

A proposito di erotismo: esso nelle Cento quartine è diventato ancora più esplicito, viene messo in scena senza reticenze, c’è una sorta di abbandono al turpiloquio amoroso…       
Non sono d’accordo sulla parola turpiloquio. Sono parole che sono nella bocca di tutti che tutti sentiamo. Un giorno, sotto l’influenza delle mie quartine, un amico ingegnere ne ha scritta una per la moglie, dove ricordo “il pene mio”… nel “ventre tuo”… Ecco, questo per me è turpiloquio. Questo è il vero errore. Se un uomo mi dicesse così io gli direi: Fermo, non lo voglio neanche vedere il pene tuo.

Cito sempre da Lezione d’amore: Scrivere è esposizione rituale alla morte, per vincere, per un istante, la paura della morte. La forte presenza della morte nei suoi versi è forse un modo per esorcizzarla?    
Non ce la metto io con intenzione, viene fuori da sola. Sono così ipocondriaca e piena di attacchi di panico, che passerei volentieri ad altro.

Lei ha scritto: “La poesia è complicata, ma per me non educa al pensiero complesso. […] Credo che, senza una competenza specifica, senza una passione innata, non serva a niente, resti, alla lettera, lettera morta. Invece la grande prosa […] può essere un efficace strumento di educazione al pensiero complesso”. In questa affermazione lei mostra una certa sfiducia nella parola poetica, la considera, a differenza di molti suoi colleghi qualcosa di elitario e destinato a rimanere tale. Perché scrivere poesia allora? È mai stata tentata, vista la sua precedente affermazione, dalla scrittura in prosa, di un romanzo, ad esempio?
Lì rispondevo a una domanda specifica intorno alla complessità… Penso che la grande poesia serva soltanto a quei pochi a cui dà piacere, mentre la grande prosa possa insegnare a tutti l’immaginazione, questa capacità meravigliosa che ci rende migliori e superiori, perché chi sa immaginare sa capire di più e vivere meglio. Tutto il resto, la similpoesia, la prosa da bravi in italiano, sono un inutile, quando non dannoso, passatempo.

Se si rigira e guarda tutte le sue opere fin qui composte, quali linee di continuità e di rottura vede?
A me sembra di menare il can per l’aia da 34 anni.

Lei ha vissuto molti anni con Giovanni Raboni. Può raccontarci com’è nato il vostro incontro? Che ricordo ha di lui? Quale influenza ha avuto sulla sua vita e sulla sua poesia?
Alle ore 14.30 del 23 gennaio del 1981 in via Fatebenefratelli 30 (arrivata in automobile da Belluno con un amico pellicciaio) ho suonato il campanello, ubriaca perché avevo paura. Raboni ha aperto la porta (camicia chiara, maglione girocollo nero, pantaloni beige di velluto a coste, desert boots color sabbia). Al suo “buongiorno” ho risposto: “Sono ubriaca e ho bisogno di pisciare”. Poi abbiamo parlato, mi ha voluto dare “La fossa di Cherubino”, ci ha scritto la dedica, mi sono inginocchiata per leggerla e mi ha baciata (direi alle 14.45). Raboni è il mio maestro e il mio amore, è una struttura della mia mente, scorre nelle mie vene.

In Per una definizione di poesia lei scrive: Se vent’anni fa qualcuno mi avesse chiesto, perché questa ossessione della forma avrei risposto perché sono una persona sensuale, incline al piacere dei sensi e soprattutto a quello dell’udito, perché il piacere che dà una ripetizione ordinata si suoni e di ritmi è un piacere sensuale. Se oggi mi venisse fatta la stessa domanda risponderei: Perché sono una persona religiosa…Cosa intende dire?
Non mi basta più il piacere sensuale di una successione ordinata di suoni e di ritmi. Ho bisogno di un senso più forte, di qualcosa che nutra la mente e non sia solo piacere che nutre l’udito. Qui c’entra la fede nella parola come strumento, e qui cito Giovanni Raboni, di responsabilità morale. Io non userei mai una parola che si trascina di bocca in bocca senza più significato, mi sembrerebbe di violare i morti. Mentre cerco di ridare vita a quelle che l’hanno perduto. Io che uso la lingua sento profondamente la fede nella parola. Posso anche citare Giacomo Lubrano che ha detto che chi parla male vive male. Se fossimo più attenti a come parlano le persone prenderemmo meno granchi e sapremmo giudicare meglio gli altri.