Recensione a “Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema” di Alberto Brodesco

Sguardo, corpo, violenza - Media/eros. Sessualità, tecnologie,  rappresentazioni - Antropologia e intercultura - Libri

Sono passati due secoli dalla morte di Donatien-Alphonse-François de Sade, meglio noto come marchese de Sade (Parigi, 2 giugno 1740 – Charenton, 2 dicembre 1814), eppure le sue opere mantengono ancora intatta la loro deflagrante carica eversiva. Questa forza scardinante presente nelle pagine dell’autore de “Le 120 giornate di Sodoma” ha attratto molti registi cinematografici i quali hanno visto nei suoi libri una straordinaria sfida ai limiti del rappresentabile. Al rapporto tra Sade e il cinema è dedicato l’ultimo saggio di Alberto Brodesco, intitolato “Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema” (Mimesis Media/Eros, pagg. 366), nel quale il critico maladense, assistente di ricerca all’Università di Trento, analizza il cinema sadiano alla luce della triade sguardo, corpo, violenza. Innanzitutto, secondo Brodesco, il cinema sadiano si costruisce intorno a due interdetti che sanciscono per il critico André Bazin il limite della rappresentazione: la morte e la piccola morte, cioè l’orgasmo. I registi sui quali il saggio si sofferma maggiormente sono Luis Buñuel, Pier Paolo Pasolini, Peter Brook, Jesús Franco, anche se ne vengono citati e analizzati molti altri.

Ne “L’âge d’or” (1930) di Luis Buñuel si ha la prima citazione cinematografica in assoluto di un’opera di Sade. Il regista spagnolo trova in questo scrittore un potente antidoto sovversivo alla morale borghese e alle barriere che la società erige nei confronti del desiderio dell’uomo, tanto che la presenza del Marchese aleggerà in molte sue pellicole come “Lui”, “Le avventure di Robinson Crusoe”, “Nazarin”, “La via lattea”. Pasolini trae il suo film testamento, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”(1975), dal libro di Sade spostando però l’azione durante la Repubblica di Salò e realizzando un’opera che lavora sulle figure dell’insostenibile e dell’irrappresentabile per criticare la mercificazione dei corpi e la spaventosa omologazione a cui ci ha ridotto la società dei consumi. Peter Brook, invece, basandosi sul testo di Peter Weiss “Marat /Sade”, realizza nel 1966 un film che prende le mosse dalla sua stessa messa in scena teatrale, nel quale vengono poste accanto l’utopia radicale e collettiva della rivoluzione di Marat, l’utopia del male individuale e nichilista di Sade e quella riformista di Coulmier, direttore del manicomio di Charenton. Troviamo infine Jesús Franco che gira molti film ispirati a Sade e che possono essere visti come “un’improvvisazione musicale che parte principalmente dai corpi degli interpreti e su di essi sviluppa delle frasi visive”. Quello che Brodesco rileva nel cinema sadiano è innanzitutto la sua capacità di minacciare la posizione protetta, irresponsabile e voyeuristica dello spettatore il cui sguardo è continuamente chiamato in causa dalla visione del corpo violato. Si innesca così una profonda riflessività che costringe chi guarda il film a interrogarsi sulla natura e sulla liceità del suo sguardo, che non può essere innocente in quanto partecipa a ciò che vede. Ma ad essere messo in crisi è il mezzo cinematografico stesso. In primo luogo perché la violenza che si trova nelle immagini derivate dall’opera di Sade appartiene all’atto del filmare stesso. In secondo luogo perché l’avvicinamento alla figura di Sade e alla sua scrittura, la cui debordante potenza immaginativa aspira dichiaratamente a dire tutto, si confronta al cinema con un vedere tutto che spalanca un abisso. Questo costringe il linguaggio cinematografico ad un pericoloso sbandamento in quanto, “gravati dalla violenza nell’immagine e dell’immagine, i cineasti sembrano perdere il controllo del gesto enunciativo. Come un’esposizione al sole, Sade sembra bruciare la pellicola”.